Marathon Des Sables 2018
Un vero e proprio ritorno alle origini dell'uomoLa Marathon des Sables non è una gara. È la prima cosa che mi ha detto Paolo (n.d.r. Zubani il referente MdS per l’Italia, alla sua 30ma edizione) appena siamo arrivati al bivacco, se vieni per fare una gara non hai capito un cazzo. E io, come sempre, non avevo capito un cazzo! Nel poco tempo prima della partenza ho fatto del mio meglio per prepararmi fisicamente. Sono arrivato a correre per due ore a più di dieci chilometri all’ora con sette chili sulle spalle sul tapis roulant con una temperatura di trenta gradi. Una scena raccapricciante per chi mi guarda in palestra.
Un giorno sono andato e tornato dall’ufficio di corsa con lo zaino che oramai è parte integrante della mia schiena. Trentaquattro chilometri per andare e trentaquattro per tornare, quasi come il tappone da ottantasei del quarto giorno di gara. In una settimana, riesco a incastrare centonovanta chilometri con solo un giorno di riposo. Mi sembra di essere pronto. Invece, stupidamente, ho tralasciato completamente tutti gli aspetti relativi alla gestione dell’autosufficienza per i sette giorni di gara. Due giorni prima della partenza mi assale il panico.
Ho ordinato su internet alcuni articoli del materiale obbligatorio che tardano ad arrivare, ho provato le ghette solo una volta, non ho trattato i piedi per prevenire le vesciche da sabbia, non ho mai provato a correre con lo zaino con tutto l’occorrente per sette giorni, devo finire di preparare il cibo e soprattutto cercare di farlo stare nello zaino.
Sono talmente in ritardo che oramai non è più una questione di cercare di ridurre il peso ma solo di cercare di avere tutto quello che mi può servire per non avere troppa fame di giorno e troppo freddo di notte.
Quando mancano dieci minuti alla partenza del Malpensa Express, mi decido a riempire lo zaino con tutto quello che ho previsto. La roba è talmente compressa che mentre chiudo, faticosamente, la cerniera principale, una busta di cibo sottovuoto esplode, ungendo tutto il cibo relativo al terzo giorno. Cerco di lavare tutto e rimetto sottovuoto il cibo ma sarà ancora commestibile tra cinque gironi? Perdo il treno e avviso del mio ritardo gli altri componenti della spedizione italiana.
Finalmente, arriviamo a Quarzazate alle due di notte e dopo poche ore ci imbarchiamo sul pullman che ci porta al bivacco. Vada come deve andare, ho fatto tanti sacrifici e ora mi voglio vivere appieno quest’avventura. La luce e l’aria pulita del Marocco sono magnifiche e mi riconciliano con le mille ansie che mi attanagliano.
Il bivacco è molto spartano, ci sistemiamo sotto la nostra tenda berbera, tutti con i propri dubbi e pensieri. Ognuno di noi è qui per un suo motivo personale, resta da verificare se questa motivazione sarà sufficiente a portarci all’arrivo della sesta e conclusiva tappa.
Passiamo una prima notte con, ancora, a disposizione la valigia che consegneremo il giorno successivo. Da una parte ci permette di valutare cosa può servire ma dall’altra alimenta i dubbi su cosa portare. Infatti, il giorno successivo smonto e rifaccio lo zaino altre quaranta volte, poi finalmente arriva il momento del controllo dello zaino. Il mio è uno dei più pesanti, otto chili e settecento grammi senza macchina fotografica e acqua, il che vuol dire che in partenza arriverà tranquillamente a dieci chili.
È il momento chiave di tutta la faccenda. Spengo e abbandono il telefono. Non ricordo un altro momento in cui sono stato così scollegato dal resto del mondo e dal lavoro. Per fortuna mi sono portato i prodotti di Kratos di cui mi posso fidare. Quello che ho nello zaino è quello che mi devo far bastare per sette giorni, se non ho preso qualcosa mi dovrò arrangiare, se ho troppo me lo dovrò portare sulle spalle. Questa certezza è in un certo qual modo rassicurante e, stranamente, mi addormento sereno con il cielo stellato attaccato alla faccia.
La notte è calda fino alle due poi il freddo mi assale, mi rendo conto la mia attrezzatura è inadeguata e decido di portarmi dietro anche la maglietta di cotone che pensavo di regalare ai ragazzi che smontano il campo. Il servizio in camera non è dei migliori, alle cinque ci svegliano sradicando, in una nuvola di polvere, il telo della tenda dalla nostra testa e rimaniamo nei nostri sacchi a pelo sulla sabbia in mezzo alla polvere. Non c’è neanche il tempo di lamentarsi che tutti cominciano a dirigersi alla partenza.
La prima tappa è la più semplice, almeno, sulla carta, cerco di trovare il mio ritmo senza rimanere schiacciato dallo zaino. Intorno a me tutti corrono velocissimi e leggeri. Ogni volta che la sabbia diventa più molle, sprofondo e per quanto spinga non riesco ad avanzare. È abbastanza frustrante. Comincio a sospettare che gli altri abbiano gonfiato gli zaini con l’elio dei palloncini del luna park.
Assisto alla battaglia per le prime posizioni della graduatoria femminile. Sembra di vedere dei felini che si annusano prima del combattimento finale. All’arrivo di tappa c’è il colpo di scena che determinerà la classifica, viene effettuato un controllo sullo zaino e la prima atleta arrivata viene penalizzata perché priva del materiale obbligatorio, la seconda con uno zaino più grande di lei ha tutto il necessario mentre la terza arriva con un compagno che l’assiste.
Lascio il controllo disgustato e mi dirigo alla nostra tenda con le mie quattro bottiglie d’acqua, il campo è ancora vuoto, il silenzio del deserto meraviglioso e il momento in cui mi tolgo lo zaino, per accasciarmi a terra, magico. Forse, penso, vale la pena per dei momenti così.
A uno a uno arrivano tutti i componenti delle nostre tre tende, ognuno con i suoi tempi ma tutti con il sorriso di chi può spuntare una tappa dal proprio roadbook. A dire il vero, preso da un insano bisogno di alleggerire lo zaino, strappo le pagine relative alla prima tappa e le uso per accendere il fuoco come nella migliore tradizione degli hikers del Pacific Crest Trail.
Prima che arrivi il buio ci riuniamo sotto la nostra tenda per la cena. Ognuno segue le proprie strategie alimentari che vanno dal solo cibo liquido d’ispirazione astronautica alla birra con sardine piccanti. Tutti cerchiamo di condividere con gli altri il pezzo più pregiato della nostra dispensa. Otto persone che non si conoscono, molto diverse tra loro ma pronte a fare qualsiasi cosa pur di aiutarsi a vicenda. Al tramonto del sole, il campo diventa silenzioso e ognuno cerca di fare i conti con i propri pensieri prima di addormentarsi.
Di notte fa freddo, molto freddo. Verso le quattro mi sveglio, non riesco più a dormire, mi metto tutto quello che ho e mi chiudo nel sacco a pelo lasciano solo un’apertura per respirare con il naso.
La seconda tappa è una delle più impegnative con tanta sabbia, dune alte, vento forte, manco a dirlo, sempre contrario e l’attraversamento del jebel El Otfal. Come da programma, soffro molto nel finale. Non sento minimamente che lo zaino si è alleggerito del cibo del giorno prima, anzi mi sembra ancora più pesante. Stringo i denti e punto solo ad arrivare sotto quel maledetto telo nero per togliermi lo zaino.
Il campo è sconquassato dal forte vento, anche stare sdraiati è un’impresa perché la sabbia trasportata dalle raffiche si infila dappertutto. E quando dico dappertutto vuol proprio dire dappertutto. Ma, oramai, lo spirito della gara si è impossessato di noi, trasformandoci in perfetti tuareg e nessuno ci fa più caso.
Il vento non accenna a diminuire, anzi si accanisce e alle due di notte, in una tempesta di sabbia, riesce a impadronirsi di alcune tende, facendole volare via e costringendo l’organizzazione ad abbattere tutti i pali, bloccando i teli con i picchetti sopra la testa dei concorrenti. La situazione è al limite della claustrofobia ma almeno la sabbia ha smesso di ricoprirci. Il giorno dopo, come se non fosse successo niente, quando sorge il sole, usciamo dal telo e siamo pronti per correre nuovamente. È come se si fosse risvegliato in noi qualcosa di atavico, un istinto primordiale per cui appena svegli, siamo pronti per correre dietro una preda, dietro i nostri sogni o davanti ai nostri demoni.
Comincio a capire che la MdS non è solo una gara a tappe in autosufficienza nel deserto… Il terzo giorno, il percorso è più roccioso con salite, discese e passaggi in cresta. Per fortuna, nel deserto non c’è solo sabbia ma anche delle magnifiche conformazioni rocciose. La vista dall’alto degli jebel è meravigliosa e mi ricorda di quanto siamo piccoli in questo deserto.
Mi rendo conto di quanto l’organizzazione nelle trentatré edizioni della gara non sia scesa a compromessi logistici, portandoci nel bel mezzo del deserto del Sahara. L’isolamento dalla civiltà è massimo, infatti, per sette giorni non incontriamo nessun insediamento umano. Sono certo che domani nella tappa più lunga pagherò caramente questo impeto d’euforia ma mi diverto come un pazzo, finalmente, su un terreno solido su cui posso spingere.
Infatti, forse, complice il fatto che parto con il secondo gruppo, nella quarta tappa, sento molto il caldo. Quando partiamo il campo è già stato completamente smontato, uno accanto all’altro partiamo dietro a una linea tracciata nel terreno unico segno del nostro passaggio. Dopo i primi venti chilometri sono costretto a rallentare vistosamente. Vedo le onde di calore alzarsi dal terreno, non riesco a mangiare, il cibo che ho mi sembra poco e inadeguato alla lunghezza della tappa. Invece di provare a reagire mi lascio suggestionare dai cattivi pensieri. Ho paura, devo ammetterlo, ho paura di aver sbagliato i calcoli e di non farcela.
Avanzo lentissimo, i chilometri nella sabbia sono interminabili, mi sembra impossibile poter correre in queste condizioni. A ogni checkpoint mi riverso una delle mie due bottiglie addosso per abbassare la temperatura, mi fermo a godermi il fresco momentaneo e non mi accorgo del tempo che passa. Il vento che ci ha soffiato in faccia per tre giorni ora è inesistente.
Non lotto più. Stupidamente continuo a pensare ai chilometri che mancano e che dopo quelli ci sarà ancora l’ultima tappa lunga come una maratona. Quando, finalmente, il sole tramonta e cala la notte provo a reagire alle mie paure. Manco a farlo apposta, si alza un forte vento contrario che preleva delle secchiate di sabbie dalle dune per gettarmele in faccia.
Lo scenario è ancora più inquietante alla luce della frontale che illumina la sabbia che orizzontalmente mi viene incontro come un velo tra me e il deserto. Sono costretto a mettere gli occhiali da sole e ad alzare la potenza della pila al massimo. Per un istante penso a come farà a uscire dal mio corpo tutta la sabbia che sto respirando, ma mi rendo conto che è meglio non pensarci. Come spesso accade, quando capisco che, nonostante tutto, ce la posso fare, negli ultimi venti chilometri ricomincio a correre rendendomi subito conto di aver ceduto stupidamente alla paura.
Ho sbagliato proprio nella tappa lunga che doveva essermi più congeniale. Anche qui non avevo capito un cazzo. Sono solo contento di vedere arrivare tutti i componenti della spedizione italiana. Più di duecento chilometri sono passati sotto le nostre scarpe e questo disegna sorrisi sui volti scavati di tutti noi. Il traguardo non è più così lontano.
Nelle ore che ci separano dall’ultima tappa diamo fondo alle nostre scorte alimentari, cercando di immagazzinare più energia possibile per l’ultimo sforzo.
Non riesco a prendere sonno, pensieri contrastanti affollano la mia testa, esco dal sacco a pelo per schiarirmi le idee con l’aria fredda della notte. Il buio non è disturbato da nessuna luce artificiale, la luna non ancora sorta, alzo lo sguardo e la volta celeste è lì a un centimetro dalla mia faccia. È di una bellezza disarmante, ci sono stelle, costellazioni, nebulose che non avevo mai visto, sembra di essere dentro una di quelle sfere d’acqua con dentro i brillantini. Questo è uno di quei momenti lì: in cui capisci qual è il tuo posto nel mondo e ti riconnetti con la natura, con la tua natura.
Della classifica non m’interessa più niente, non la guardo neanche, l’ultimo giorno corro più forte che posso solo per me stesso e arrivo, soddisfatto di aver fatto del mio meglio, alla fine dell’ultima tappa cronometrata. Mi fermo per ore a guardare gli arrivi e vedo più lacrime negli occhi degli ultimi che in quelli dei primi. Il giorno dopo ci attende solo una passeggiata collettiva tra le dune, obbligatoria ma non cronometrata. Sarà molto dura tornare alla vita di tutti i giorni dopo un’esperienza del genere.
Spostarsi correndo nel deserto tutti i giorni ha un che di ancestrale, vivere con poco, senza elettricità, acqua corrente, telefono, alzarsi quando sorge il sole, addormentarsi quando cala, condividere con gli altri i momenti difficili e quelli meravigliosi, è un vero e proprio ritorno alle origini dell’uomo.
Effettivamente la MdS non è solo una gara e, ora, l’ho capito anch’io.
PS: per una settimana, giorno e notte, ho usato la nostra HAWAII II TECH T-SHIRT, i nostri BRYCE SHORTS e il nostro ENDURANCE HAT. Un po’ impolverati ma hanno retto alla grande.
Credits
Testi e foto di Filippo Canetta.